Diverse volte al giorno porto l’attenzione al mio respiro. Ai miei piedi.
Ascolto la pianta appoggiata alla terra che mi sostiene e i movimenti che accompagnano i miei passi.
Un passo dopo l’altro. Ascolto le mie radici.
Da qualche giorno mi soffermo sul chiedermi quanti passi nel mio contapassi interno ho ancora a disposizione.
“Potevi dire che andavi a fare un percorso sul lutto invece che sulla morte?!”
E invece si dice proprio morte.
Credo sempre di più di voler abitare le mie parole e non posso prescindere da un’esplorazione continua di me, come professionista della relazione di cura e aiuto, ma soprattutto come persona.
Ho incontrato personalmente nella mia vita e anche nei gruppi, nelle formazioni e nei percorsi individuali le tante sfaccettature della morte. La morte di una persona cara, di una relazione, così come separazioni, le sfide alla morte, la morte di una parte di sé, di un animale, di credenze, di parti emotive e fisiche, di progetti, della propria vitalità.
Quando e se parliamo di morte le reazioni sono le più diverse. La neghiamo, sdrammatizziamo, per scaramanzia qualcuno o qualcuna tocca parti metalliche o le proprie zone intime, la banalizziamo o crediamo di avere sicure certezze che ci sono state tramandate e che mai abbiamo provato a mettere in discussione.
Eppure parlare di morte ci permette di riflettere sulla qualità della nostra vita, delle nostre scelte, dei nostri passi. Sostare per qualche istante sul chiedersi “e se improvvisamente quest’oggi il mio contapassi si fermasse? Se non avessi più tempo per vivere? Se oggi arrivasse la mia morte?”
Mentre state leggendo probabilmente alcuni di voi si fermeranno qui.
“Che pesantezza!”. “Ma non ha altro da scrivere?!”. “Ma io non voglio pensarci!”.
Infatti potete non proseguire, ma permettetevi anche solamente di stare in ascolto di ciò che produce nel vostro corpo la parola morte.
Dove la sentite? Che sensazione produce? In quale parte del vostro corpo?
State lì, concedetevelo, e se arriva un’emozione lasciatela fluire.
Siete vivi.
Forse.
Si può pensare di poter scrivere sulla morte solo attraverso le impronte che ciascuno porta in sé, delle proprie esperienze, delle persone e delle storie che incontriamo.
Invece le esperienze preziose che mi sono state donate nei giorni scorsi nel percorso “Comprendere la morte. Accompagnare la vita” mi hanno permesso di immergermi con maggiore attenzione nel sentire, riflettere, chiarire, aprire a nuove domande e messe in discussione.
Talvolta ci arroghiamo il diritto di sapere ciò che crede, desidera, vuole o avrebbe voluto l’altro/a, quale sarebbe il suo bene, la “cosa giusta”, senza chiederci per chi davvero facciamo ciò che facciamo. Tendiamo a non porre domande che entrino nei molteplici significati e aspetti legati alla morte, al morire, ai trattamenti di fine vita, a ciò che vorremmo o non vorremmo; non ne parliamo perché altrimenti “che pesantezza!”.
La possibilità di poter nominare, condividere, esplicitare dubbi, domande, curiosità, ma anche quelle che sono le proprie scelte è un atto di libertà preziosa per noi e per gli altri.
Alleggerisce.
Sapevate che è possibile conoscere, approfondire e compilare le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento per dare voce alle proprie volontà laddove, in una fase terminale, non sia più possibile comunicare ed esprimere le proprie decisioni?
Mi sono regalata un’immersione formativa sul comprendere la morte, il morire e accompagnare la vita tenuta dall’Associazione Il Bruco e la Farfalla Onlus e ho scoperto quante cose non sapevo, quante credevo di sapere, quante ignoravo, quante ancora voglio chiarire e ho compreso ancora di più quanto stare accanto all’intensità emotiva che costella una morte nelle sue tante forme e livelli sia un’esperienza di vita, di trasformazione, di apprendimento. E’ un’esperienza ogni volta unica: accompagnare per un tratto di strada chi è nel fine vita, una famiglia che sta accompagnando un proprio caro, ma anche persone che sono in vita ma morte emotivamente. Tutto avviene nel qui e ora, nella presenza, in comunicazioni e nel sentire che vibrano oltre le armature e le maschere che troppo spesso nelle nostre vite ci costruiamo cercando di resistere, di piacere a tutti, di rimandare la morte, perché altrimenti: ”gli altri cosa direbbero?!”, invece di esistere pienamente e liberamente chi siamo davvero.
Amo profondamente la vita, i suoi giri e la vitalità, poi, guardo alla natura e mi apro alle sue sagge lezioni sul morire.
Non ho scritto da nessuna parte la parola “facile”. E’ molto complesso, soprattutto per noi che viviamo in questa parte di mondo, ma è un’esplorazione continua, un allenamento che desidero fare e vivere per me, per le mie radici e per ogni persona che incontro sulla mia strada.
“C’è una popolazione africana, gli Himba, dove la data di nascita di un figlio non viene conteggiata da quando nasce, né da quando viene concepito, ma dal giorno in cui il bambino era un pensiero nella mente di sua madre. E quando una donna decide che avrà un bambino, va fuori e su siede sotto un albero, da sola, e ascolta fino a quando può sentire il canto del bambino che vuole venire. E dopo aver sentito la canzone di questo bambino, lei torna da colui che sarà il padre del bambino, e la insegna a lui. E poi, quando fanno l’amore per concepire fisicamente il bambino, per un po’ di tempo cantano la canzone del bambino, come un modo per invitarlo.
E poi, quando la madre è incinta, insegna la canzone del bambino alle levatrici e alle vecchie donne del villaggio, in modo che quando il bambino è nato, le donne anziane e le persone intorno a lei cantino la canzone del bambino per accoglierlo. E poi, come il bambino cresce, agli altri abitanti del quartiere viene insegnata la canzone del bambino.
Se il bambino cade o si fa male, qualcuno lo raccoglie e gli canta il suo canto. O se il bambino fa qualcosa di meraviglioso o partecipa ai riti della pubertà, per onorarlo, la gente del villaggio canta la sua canzone.
Nel gruppo degli Himba c’è un’altra occasione su cui gli abitanti del villaggio cantano al bambino: se in qualsiasi momento durante la sua vita la persona commette un crimine o un atto sociale aberrante, l’individuo è chiamato al centro del paese e le persone della comunità formano un cerchio intorno a lui o lei e poi gli cantano la sua canzone.
La comunità degli Himba riconosce che la correzione per un comportamento antisociale non è la punizione, ma l’amore e il ricordo della propria identità.
Quando si riconosce la propria canzone, sparisce la voglia o il bisogno di fare cose che possano ferire un altro.
E va così la loro vita. Nel matrimonio, le canzoni sono cantate, insieme.
E infine, quando una persona è sdraiata sul letto, pronta a morire, tutti gli abitanti del quartiere conoscono il suo canto, e cantano, per l’ultima volta, il canto a quella persona…”
Tratto da: “Mille giorni d’oro”, M. Grandi e E. Poli Se desideri approfondire:
https://www.ilbrucoelafarfalla.org/
https://www.dichiarazionianticipate.it/
foto: Roberta Roberto